Durante le due settimane che ho trascorso al mare ho conosciuto un ragazzo del Gambia, abbiamo chiacchierato parecchio, in tedesco. Abbiamo parlato di lingue di studio e della tradizione. E mentre cercavo di spiegargli che non è giusto che la lingua ufficiale del Gambia sia l’inglese, mi sono resa conto che lui la sua lingua di origine (il Wolof), nonostante non venga insegnata a scuola e lui la chiami “dialetto non importante” – e anche qui ho cercato di protestare –, la conosce benissimo e la considera in realtà importantissima, mentre io il mio dialetto, che alla fine è una componente importante della mia identità, l’ho praticamente quasi perso del tutto. Sempre pronta a puntare il ditino, da buona europea, eh.
Da qui il mio pensiero, che, a differenza del mio corpo, è piuttosto dinamico, è andato a saltellare tra i pregiudizi culturali e poi sulle parole-etichetta che lo condizionano. E sul linguaggio e sulle parole che si caricano e si fanno portatrici di pensieri viziati dal pregiudizio.
Il linguaggio è una forma di azione, dice la Pragmatica. Si parla infatti di atto linguistico. Se si considerassero in questo modo le parole, forse verrebbero pesate di più. Una parola offensiva o discriminatoria equivale a un’azione con le stesse caratteristiche. Certi termini offensivi sono il risultato di evoluzioni, derive o pregiudizi culturali. E per cambiarli bisognerebbe cambiare prima il modo di pensare. Ma questo processo richiede tempo e pazienza e perseveranza e fiducia e, e, e…
Un elenco generico e generale di parole usate per ferire lo trovate qui.
Alcune parole, nate con un significato neutro o settoriale o tecnico, si sono poi caricate, nell’uso, di un valore negativo e offensivo. Oppure, ci sono parole che identificano un gruppo di persone, mettendo in risalto un elemento distintivo che le caratterizza, fino a stigmatizzarle o a ghettizzarle. Oppure parole che sminuiscono o ledono la dignità personale. Tutto, ovviamente, può essere peggiorato o migliorato in base al modo e al contesto in cui vengono usate e percepite. Usare eufemismi o cambiare parola, senza cambiare l’atteggiamento o il significato che si assegna a quel termine, non serve a molto. La cosa più meschina poi è che le parole-etichetta vanno spesso a colpire dove già esiste una qualche forma di fragilità, potenziandola. E più vado avanti con gli anni, più faccio cose e vedo gente, più mi rendo conto che prima o poi la fragilità tocca tutti. E quindi usarle diventa anche come sdoganare possibili, futuri auto-insulti.
Faccio qualche esempio in diversi ambiti:
Handicappato: che poi, a pensarci bene, per come è concepita la nostra società, le persone con disabilità e chi di loro si occupa ha più la stoffa del supereroe o del genio che dello sfigato.
Quando ero piccola si usava una parola che non mi è mai piaciuta: mongoloide da mongolismo/mongoloidismo. Oggi, ogni tanto, la sento ancora, purtroppo.
Marocchino, terrone e altri etonimi usati con valore dispregiativo.
Gli insulti riservati alle persone omosessuali.
E poi ci sono le parole per offendere le donne. Parole anche ricercate, negative al femminile Peripatetica e che al maschile non lo sono, anzi son quasi un complimento, Peripatetico. Invece di caffè da passeggio si potrebbe parlare di caffè peripatetico? Mi chiedo.
Anche la parola “vittima” quando si parla di chi ha subito un abuso o stupro potrebbe essere percepita come discriminatoria.
E la “malattia mentale” si attribuisce spesso a persone che vivono o pensano in modo originale o che non si riesce a comprendere.
E dietro a molte di queste parole ci sono spesso persone che vivono o hanno vissuto realtà complicate, sono parole con radici e pregiudizi culturali profondi. C’è da lavorare tanto…
E capita, in alcuni casi, che chi è il diretto interessato o l’oggetto di una parola-etichetta, per orgoglio, realismo o senso di appartenenza, tra quella potenzialmente offensiva o discriminatoria o che sminuisce e quella politicamente corretta (che evita ogni potenziale offesa nei confronti di determinate categorie di persone, ed è potenzialmente esente, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona), scelga di utilizzare quella più connotata in senso negativo.
Quasi tutte le evoluzioni dei termini scientifici in termini connotati negativamente sono riconducibili alla semplificazione che opera il nostro cervello quando questi termini diventano di uso comune e manca una conoscenza approfondita. Non capisco, invece di cercare di capire, se va bene -> semplifico. La stessa cosa accade anche per il pregiudizio, che, ad un certo livello, è necessario per processare velocemente le informazioni, ma non deve essere l’unico metro di misura.
Quando parlo o scrivo cerco sempre di usare parole di cui posso assumermi la responsabilità. Per farlo, di ogni parola, devo conoscere il significato e le possibili sfumature. E come è scritto in uno dei punti del manifesto di Parole O_Stili, sono consapevole che gli insulti non sono argomenti.
Se iniziamo a pensare che il significato delle parole è contagioso come gli sbadigli, potremmo piano piano provare a dosare e a misurare le parole potenzialmente offensive o discriminatorie che intendiamo usare per parlare o scrivere in ambito pubblico, pensando a chi potrebbe risultarne offeso oltre al diretto bersaglio della nostra eventuale rabbia. Se rischiamo di offendere anche solo una persona che non c’entra nulla, varrà comunque la pena di usare quel termine o ne conosciamo un altro? Confesso che mi suscita a volte tristezza, altre volte un sorriso o una risata (tendenzialmente amara, un po’ isterica e rassegnata), leggere o sentire inviti all’umanità nei confronti di alcuni esseri umani, e, dalle stesse persone, insulti e offese feroci ad altre categorie di persone o a singoli esseri umani. Mi viene da chiedermi se può esistere un’umanità a singhiozzo. Mah!
Io, intanto, spedisco al mio amico Serek un bel libro in tedesco. L’ho preso dalla mia libreria perché non ne avevo con me al mare e non ha voluto che spendessi dei soldi per comprarne uno da regalargli.